Candide di Voltaire. Foto Alberto Rizzerio

SIAMO TUTTI ILLUMINISTI?

in
Voltaire e il peggiore dei mondi possibili: lezione pubblica del ciclo Theatrum philosophicum
di Paola Giacomoni

Il “Candide” di Voltaire è uno scritto contro l’ottimismo. La cosa, anche se molto nota, non cessa di sorprendere: questo non sembra affatto un tema da illuministi, ma da pensatori della crisi, della decadenza dei costumi e della morale. In realtà il paradosso è solo apparente: sono proprio coloro che credono nella razionalità e nel progresso a essere interpellati dal male, dall’infelicità; chi crede alla ricerca della felicità e del piacere e teorizza, come Voltaire, anche la legittimità del lusso, si trova spiazzato di fronte alla catastrofe e al male nel mondo.

La vicenda del terremoto di Lisbona del 1755, che servì da spunto di riflessione per la nascita del “Candide”, non si presta infatti a essere letta come un esempio del “migliore dei mondi possibili”, famosa teoria leibniziana sempre sulla bocca di un ridicolo professore di nome Pangloss. Il terremoto di Lisbona del 1° novembre 1755 aveva gravemente danneggiato l’allora quarta città d’Europa per numero di abitanti, ed era stato percepito come catastrofe, come distruzione inspiegabile di un mondo e di molte vite nel cuore d’Europa.

Di qui era nata quella che è apparsa come l’ultima disputa pubblica sui piani di Dio sul mondo, cui avevano partecipato, oltre Voltaire con il suo “Poema sul disastro di Lisbona” del 1756, anche Rousseau, che rispose con una lettera di dissenso, e il giovane Kant che scrisse diversi articoli di spiegazione scientifica dell’evento. La disputa è famosa perché dopo di allora si parlerà sempre meno di peccato e di colpa e sempre più di cause e di gradi di rischio. La scienza si attrezza e l’Illuminista su questa base cerca il senso dell’evento. Ciò non significa che l’uomo sia per Voltaire un essere decaduto e bisognoso di redenzione, ma invece un essere finito e sensibile, che ricerca la felicità umana e concreta, e proprio per questo è esposto al rischio e alla sofferenza.

Nel “Candide”, opera inclassificabile e difficilmente trasferibile in scena, tutto è portato alle estreme conseguenze; Voltaire vuole anzitutto provocare, ed è soprattutto un grande comunicatore. “Candide” esce anonimo a Parigi e a Ginevra nel 1759 e ne circolano addirittura 20.000 copie in quello stesso anno, benché fosse reato comprarlo. Un vero caso editoriale e una battaglia di un uomo coraggioso e al tempo stesso non ascetico o votato al martirio; amante del mondo, ma anche pronto a pagare le conseguenze del suo pensiero. Carcere ed esilio non mancarono infatti nella sua lunga e non infelice vita.
Nel “Candide” Voltaire grida l’assurdità della superstizione che vede il terremoto come castigo di Dio, ma anche e soprattutto attacca i “contabili delle disgrazie” e dell’equilibrio dei beni, come Leibniz e il suo seguace, il poeta inglese Alexander Pope, anche lui portato a far capire a molti teorie difficili attraverso la poesia.

Il tema era: come è possibile il male nel mondo se Dio è perfetto? L’ “Essay on man” di Pope del 1733 si conclude nella prima parte con la famosa frase: whaterver is, is right, tradotto poi da Voltaire, con una certa libertà, tout est bien. Concetto tradotto dal personaggio Candide in questo modo: mentre tutto va male, gli uomini sono feroci, le guerre imperversano, la terra trema, le malattie falciano le vite, Pangloss, l’iperleibniziano, dice che tutto va bene, che doveva andare così, che a Lisbona doveva esserci il terremoto, secondo i piani di Dio e che l’anabattista, unico personaggio forse a essere solo positivo nel “Candide” doveva giustamente morire nel giungere a Lisbona.

La natura e la storia, cioè il mondo in cui l’uomo vive, appare a Voltaire come un caos quasi incomprensibile, di cui è possibile conoscere piccole porzioni, e non è certo una sinfonia armoniosa e in generale volta al bene. Niente è prevedibile, molte cose fatte dagli uomini, che tuttavia non sono tutti malvagi, sono pessime o portano a pessime conseguenze. Inquisizione, guerre, torture, il potere come male distruttivo in quasi ogni paese (tranne l’utopico Eldorado) sono in modo diverso insopportabili. Questo ‘giro del mondo in 80 pagine’ con personaggi senza dimensione psicologica, fa a pezzi con l’arma feroce dell’ironia, qualsiasi possibile risposta consolante alla questione della teodicea.
Alla fine, come è ben noto, Candide decide di ritirarsi dalla mischia per coltivare il suo orticello - come peraltro Voltaire faceva a Ferney per tenersi in forma e combattere la noia - con un lavoro utile e vantaggioso.

Italo Calvino, in una famosa prefazione all’opera, interpreta questo finale non come scettico e rinunciatario, ma anzitutto come antimetafisico: non devi porti altri problemi se non quelli che puoi risolvere con la tua diretta applicazione pratica. E aggiunge: nel “Candide” si assiste a un susseguirsi di disgrazie che rimbalza di capitolo in capitolo con velocità e leggerezza, provocando nel lettore l’effetto di una “vitalità esilarante e primordiale”, osservazione molto appropriata al vitalissimo Arouet le Jeune.
Nelle opere successive risulterà chiaro quel che Voltaire pensava: solo se rinunciamo all’assurda convinzione di vivere nel migliore dei mondi possibili potremo pensare di migliorarlo, con il lavoro e i lumi della ragione, combattendo fanatismo e superstizione. E in questo ci sentiamo tutti illuministi, soprattutto oggi.