EBREI E IMPERO ROMANO

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Conversazione con Kai Trampedach, docente di Storia antica all’Università di Heidelberg
di Lucia Cecchet

Lo scorso 5 maggio il professor Kai Trampedach, docente di Storia antica all'Università di Heidelberg, ha tenuto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Trento una lezione intitolata “L'impero romano e la teocrazia giudaica: il perché di un fallimento”. L’incontro si è svolto nell’ambito delle attività della scuola di dottorato in Studi umanistici, discipline filosofiche, storiche e dei beni culturali che coinvolge le Università di Trento e di Heidelberg.

Professor Trampedach, perché considera la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dei Romani come un fallimento piuttosto che un successo?

Uso il concetto di fallimento secondo la definizione di Max Weber. Un'autorità che deve ricorrere alla violenza estrema, come la guerra, per mantenere il controllo è un'autorità che ha fallito. Il caso dei Romani in Giudea è esemplare. Essi non furono mai accettati né dall'élite né dalla popolazione locale. Il loro fu un tentativo, non riuscito, di realizzare in Giudea quello che avevano messo a punto in altre province: un'egemonia stabile.

E come mai questo fallimento avvenne proprio in Giudea?

Le ragioni sono molteplici. Dobbiamo valutare il quadro economico e sociale di questa regione tra il 63 a.C., anno dell'istituzione della provincia della Palestina sotto Pompeo e il 74 d.C., l'anno della repressione della rivolta giudaica. La Palestina era una regione povera, dilaniata dal fenomeno del brigantaggio e ostacolata, nel processo di sviluppo economico e politico, anche dal fatto che non si era formata una rete urbana (di poleis) come in altre parti del mondo ellenistico prima della conquista romana. Ma ritengo che queste siano concause, se così si può dire, e che le radici del problema vadano cercate altrove. Penso che si debba rivolgere l'attenzione alla religione che ha segnato il modo di pensiero, l'organizzazione politica e la vita quotidiana degli Ebrei di Palestina.

Perché proprio la religione?

La religione ha profondamente influenzato il pensiero politico ebraico, in quanto ha posto limiti precisi all'autorità politica: per la religione giudaica Dio è la sola e unica fonte di autorità. Gli uomini che guidano la comunità, siano essi sacerdoti o dinasti, non fanno altro che interpretare la volontà divina. Sotto questo punto di vista è evidente che un'autorità esterna ed estranea a Dio, come quella dei Romani, era considerata inaccettabile. Questo rifiuto è riscontrabile nei comportamenti di ogni gruppo del mondo giudaico, dai sommi sacerdoti, ai gruppi estremisti, alla gente comune che appoggiava i briganti contro le legioni romane. Sulla base di queste motivazioni religiose e ideologiche capiamo perché il culto dell' imperatore non fu mai praticato dagli Ebrei e perché essi giunsero addirittura a rifiutare l'acqua trasportata dall'acquedotto di Pompeo, in quanto esso violava le regole religiose di purificazione. Siamo di fronte ad un caso unico nel mondo antico: la religione ebraica ha reso unanime la volontà di ceti sociali diversi nella Palestina del primo secolo dopo Cristo.

Ma i Romani conquistarono altri popoli presso i quali l'autorità religiosa e quella politica coincidevano. Presso gli antichi Egizi, per esempio, il Faraone era considerato una divinità, eppure dopo la conquista dell'Egitto l'amministrazione romana non incontrò particolari problemi. Perché allora il caso della Giudea fu cosi particolare?

Ci sono molti elementi che distinguono la religione ebraica dalle altre religioni antiche: uno di questi è il fatto che il popolo d'Israele è il Popolo Eletto, un altro è l'attesa messianica. Gli Ebrei sono il popolo di Dio e come tali si devono comportare. Il figlio di Dio verrà e libererà il suo popolo, ma prima della sua venuta il popolo deve, per così dire, fare la sua parte, in primo luogo seguire le leggi divine. Accettare il dominio romano sarebbe stata una violazione della volontà divina. Ma non si deve dimenticare che per capire le ragioni del fallimento romano dobbiamo anche valutare come i Romani gestirono la situazione in Giudea. Su questo ci sono posizioni discordanti nella comunità scientifica.

La sua posizione a riguardo qual è professore?

Non sono d'accordo con chi, come Martin Goodman, sostiene che la guerra giudaica fu il risultato di una fortuita combinazione di eventi e accetto solo in parte il giudizio di Werner Eck, secondo il quale i Romani non seppero gestire adeguatamente le relazioni con gli Ebrei della Palestina. Che ci furono degli errori da parte dell'amministrazione romana è vero, ma bisogna capire quali e perché. Si deve tener conto del fatto che non ci fu nessun altro gruppo etnico dell'Impero al quale i Romani concessero i privilegi che diedero agli Ebrei. Basti pensare che il Tempio di Gerusalemme era l'unica istituzione, assieme al fisco imperiale, ad avere il diritto di riscuotere tasse. Ma c'è di più: i Romani esentarono gli Ebrei dal culto dell'Imperatore e rispettarono il divieto, imposto dalla religione ebraica, di venerare immagini. Rinunciarono addirittura alla pubblica esposizione delle insegne imperiali a Gerusalemme e al ritratto dell'Imperatore sulle monete coniate a Cesarea, che era la sede del Prefetto. Gli Imperatori Claudio e Nerone assecondarono le richieste di sei delle sette delegazioni che gli Ebrei di Palestina mandarono a Roma tra il 44 e il 66 dopo Cristo. Non si può quindi negare il fatto che l'autorità romana cercò di venire incontro alle particolari esigenze e alla sensibilità religiosa di questo popolo. Credo che la ragione ultima del fallimento vada cercata nell'incompatibilità strutturale di questi due sistemi politici, l'Impero Romano e la teocrazia giudaica. Il fatto che nella teocrazia giudaica il governo degli uomini è solo un intermediario della volontà divina e che non esiste una fonte indiscussa di interpretazione delle manifestazioni della volontà di Dio spiega sia perché in Giudea l'élite tradizionale non fu in grado di governare sia perché i Romani non riuscirono a creare un'élite in grado di farlo.