AI CONFINI DELL’UNITÀ D’ITALIA. TERRITORIO, AMMINISTRAZIONE, OPINIONE PUBBLICA

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A Trento un convegno del ciclo 150 anni dell'Unità d'Italia
di Luigi Blanco

Cinquant’anni fa, in occasione del centenario della nascita dello Stato unitario, un convegno di questo tipo, con al centro una riflessione sulla costruzione dello stato nazionale dai confini, sarebbe stato improponibile. Le commemorazioni di quel giubileo, rilevanti sotto il profilo storico, furono infatti centrate sull’organizzazione dello Stato.

Oggi, invece, nel corso del convegno internazionale organizzato in collaborazione con la Fondazione Museo storico del Trentino, si è inteso rileggere la costruzione dello Stato unitario e il processo di unificazione nazionale a partire da una riflessione aggiornata sulle tante periferie che caratterizzano la storia d’Italia. Porsi "ai confini dell’unità d’Italia", vuol dire infatti sottolineare, anzitutto, le differenze costitutive del nostro Paese, la complessità della sua storia pre- e post-unitaria; ma anche avere una consapevolezza ancora più acuta dell’immane sforzo, del vero e proprio miracolo che, grazie a tante circostanze, volute e cercate ma anche impreviste e fortuite, si realizzò intorno al "triennio glorioso".

I confini cui si allude nel titolo non sono pertanto i confini segnati dalla geografia, i confini naturali che facevano della penisola, con le parole di Mazzini, "la Patria meglio definita d’Europa". Ad espressione geografica, come noto, viene ricondotta del resto l’Italia in quell’epoca, in primis da Metternich, al quale però non sfuggiva la potenza comunicativa e ideologica del termine, utilizzato come una bandiera secondo le sue stesse parole. I confini di cui si è discusso nel convegno sono stati prevalentemente quelli interni, quei confini che vengono spazzati via nel corso del processo di costruzione dello Stato nazionale. Non va dimenticato infatti che a fronte del nuovo Stato e della nuova nazione, che lentamente si edificano, si registra il crollo di altre sette entità statuali.

Per questo tipo di riflessione, si è reso necessario adottare uno sguardo storico più profondo, capace di interrogare le vicende del compimento del risorgimento nazionale a partire dalla storia degli stati preunitari, con tutte le loro differenze e peculiarità e senza limitarsi neppure all’Ottocento.

Le relazioni centro-periferia, che il convegno ha inteso tematizzare, sono state interrogate non solo in rapporto alla costruzione dello Stato, ma anche in rapporto al farsi dell’Italia (o degli italiani), di quella nazione composita, a cui sono state dedicate le due sessioni centrali del convegno. "Costruire lo Stato" e "Fare l’Italia" sono indubbiamente processi strettamente intrecciati, ma che utilizzano materiali diversi, hanno bisogno di risorse diverse, si misurano su tempi diversi.

La costruzione dello Stato unitario, sotto il profilo politico-amministrativo, è stata ricostruita con dovizia di particolari, almeno a partire dalla scoperta storiografica del tema che si è registrata intorno al centenario dell’unificazione, prima, e a quello delle leggi di unificazione amministrativa, poi. Di essa si è sottolineata la profonda continuità, sia costituzionale che amministrativa, che si registra tra Regno di Sardegna e Regno d’Italia (legge comunale e provinciale sarda del 1848, legge Rattazzi del 1859, prima legge di unificazione amministrativa del 1865, che estende l’applicazione anche alla Toscana rimasta esclusa per i primi anni dell’unificazione). Continuità che rappresenta la chiave di lettura dell’intera storia amministrativa italiana, nonostante le trasformazioni e le cesure, anche dopo la fondazione della Repubblica, che pure segna la rinascita delle autonomie comunali, fino alle riforme degli anni Novanta del secolo scorso, con l’autonomia statutaria fornita al comune (legge 142/1990) e alla successiva riforma del Titolo V della Costituzione.

Invece di rileggere la storia di questa continuità, agli albori dell’Italia unita, il convegno si è soffermato sulle precedenti e molteplici tradizioni amministrative che sono confluite nella storia dello Stato unitario, a cominciare da quella lombardo-teresiana, sulla quale si registrarono dispute e dibattiti molto interessanti come quelli proposti nella Commissione Giulini. Ci si è interrogati soprattutto sul 'se' e sul 'come' queste tradizioni transitano nell’assetto amministrativo italiano e nel reticolo delle circoscrizioni amministrative, locali e soprattutto intermedie, che rimane immobile e sordo alle ragioni della storia e della geografia, non solo fisica ma anche amministrativa ed economica.

Così come per lo Stato, anche la costruzione della nazione è stata indagata a partire dalle tante periferie che compongono quel "Paese troppo lungo" che è l’Italia. La debole identità nazionale è stata storicamente tale anche perché, nonostante la nazione venga vissuta e percepita come una "comunità di destino", secondo quanto ha evidenziato l’esponente più noto dell’approccio culturalista Alberto Banti, essa è in realtà composta da altre appartenenze, siano esse municipali, nella maggior parte dei casi, ma anche regionali (nel senso di regionalismo storico) o subregionali. La prova di ciò è data dagli squilibri e dalle differenze territoriali mai assorbite in questi centocinquant’anni di storia unitaria.

Ripartire dallo spazio, dai territori, proprio oggi che i vecchi collanti del Paese sono saltati e che i nuovi collanti invocati, quale ad esempio il patriottismo costituzionale, fanno fatica ad affermarsi, è stato il modo proposto per tornare ad interrogarsi sulla consistenza della nazione italiana e sui nessi tra centro e periferia. Che sono più forti e intricati di quanto a volte si tenda a credere e certamente non riconducibili alla sola struttura amministrativa, come aveva sottolineato esemplarmente Alberto Caracciolo al convegno di Saint Vincent del 1961 dedicato al tema degli squilibri regionali nella storia d’Italia; fu nel corso di quel convegno che maturò anche l’idea dell’allora presidente della Provincia di Trento Bruno Kessler di fondare l’Istituto superiore di scienze sociali.

Anche grazie al contributo degli studiosi stranieri, i quali hanno proposto una riflessione esterna su questi temi a partire dalla percezione dell’opinione pubblica europea della complessità delle vicende del Paese che faticosamente ma anche speditamente si andava unificando, si è voluto sottolineare proprio la frammentazione e la varietà dell’Italia di quell’epoca per coglierne a pieno la portata dell’opera compiuta.

Siamo in grado di far tesoro di questa varietà e di viverla come una ricchezza? In un’intervista concessa di recente a proposito delle commemorazioni per il 150° dell’Unità d’Italia, il presidente del Comitato dei garanti, Giuliano Amato, ha affermato, provocatoriamente, capovolgendo il luogo comune per cui senza passato non c’è futuro, che "senza futuro è difficile avere un passato"; mi sembra che su questo occorra riflettere, perché proprio quando il futuro è più incerto, se non assente, l’interesse per la storia può rivelarsi una risorsa importante.