IL VIAGGIO DELL’EMIGRANTE, IL VIAGGIO DELLA SCRITTURA

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Lo scrittore Carmine Abate partecipa a Rovereto al ciclo di incontri “Le parole che ho in mente”
di Nicla Panciera

Non è il viaggio degli eterni erranti, che dilata il tempo e inganna la morte, non è un’avventura conoscitiva e nemmeno la metafora dell’utopia umana, ma è il doloroso viaggio per costrizione il fil rouge della narrativa di Carmine Abate, premio Campiello per il romanzo “La collina del vento”, giunto già alla sua quinta edizione e per cinque settimane in cima alle classifiche. 

“Pensate ad un padre, valigia in mano, cui il figlio domanda: Perché devi partire sempre?”. Al piccolo Carmine di quattro anni il papà, emigrante, risponde: “Immagina che un uomo senza scrupoli ti punti una pistola alla tempia. Che fai?”. Lo scrittore risponde: “Parti. E così sono partito sempre anch’io, come mio padre e prima di lui mio nonno, per ragioni concrete e prosaiche”. Le stesse che lo hanno spinto a scrivere “per rabbia e con rabbia” i primi racconti in tedesco, “per denunciare tutte le ingiustizie”, quelle che vide per la prima volta a sedici anni in Germania, ma che conosceva da sempre, impresse sulla pelle del padre per trentacinque anni ad Amburgo a incatramare strade “per far diventare i figli studiati”. 

Per Abate è un viaggio anche quello della scrittura, tra codici e alfabeti. “Arbëresh (albanese antico), calabrese, italiano, germanese, tedesco. Le parole sono di vitale importanza, sono esche vive che lancio nel lago della mia memoria e portano a galla le Storie”.

Dallari, AbateAbate si è raccontato al pubblico roveretano il 12 novembre 2012 a Palazzo Istruzione, in un coinvolgente dialogo con il professor Marco Dallari, direttore del Laboratorio di Comunicazione efficace e narratività e vincitore del prestigioso premio Andersen. L’incontro che ha aperto la seconda edizione del ciclo “Università-Città – Le parole che ho in mente” organizzato dal Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive con il patrocinio e supporto del Comune di Rovereto.

Lo scrittore ha parlato di Carfizzi, il piccolo borgo natio “svuotato dall’emigrazione”, del suo primo approdo in Trentino e del suo ritorno in questa “terra di mezzo tra Nord e Sud” dopo sette anni passati ad Amburgo: “Ho pensato: Questo fantastico paradiso di pomi può attendere. Ѐ ora di cambiare aria. Ma volevo solo chiudere i conti con il passato tedesco”. 

“L’emigrazione è una malattia infettiva e non te la levi più, mi ripeteva mio padre, tentando di dissuadermi dal partire. Invece, è il razzismo uno dei virus più micidiali della nostra civiltà. L’antidoto l’ho trovato. Sta nella consapevolezza che l’emigrazione è tutta nell’occhio degli altri. Il mio, di sguardo, è oggi privo di spine e di rancore, quando si posa sulla mia terra natale e su tutte le altre terre. Ѐ lo sguardo di chi è partito”. Senza ulteriore definizione: “Calabrese? Trentino? Io sono semplicemente Io, ho tante radici, anche se le più giovani sono ancora svolazzanti nell’aria. L’emigrazione da ferita della partenza diventa una ricchezza perché ti permette di vivere per addizione”. E ammette: ”Se non fossi stato costretto, sarei partito lo stesso”.