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  dibattito  

La valutazione della ricerca
Il dibattito sulla valutazione della ricerca aperto sul numero 11 di unitn continua con l'intervento di Stefano Oss

Nella sezione "dibattito" nel numero 12 di Unitn compare una lettera di Varanini e Gatti sulla valutazione della ricerca. Compare anche un'opinione di Caranti, che positivamente e costruttivamente sottolinea alcuni aspetti sicuramente degni di attenzione e di meditazione per chi si dedica a questo tipo di problematiche. Mi permetto di prendere parte alla discussione in quanto autore materiale dell'indagine svolta pochi mesi fa presso il Dipartimento di Fisica e basata sull'utilizzo del famigerato Citation Index. Soprattutto, mi permetto di intromettermi perché noto che, grazie all'intervento di Gatti e Varanini, il dibattito rischia di prendere un piega decisamente poco professionale e costruttiva. Costretto dal mio limitato e deformante metodo scientifico, faccio fatica a comprendere i motivi di tanto accanimento dei colleghi sunnominati contro Paolo Tosi, il quale ha avuto la determinazione, oltre che di motivarmi nel lavoro di indagine che ho svolto, anche di denunciare la relativa povertà ed inadeguatezza di metodi di "peer review" in un paese dove da sempre domina un regime di solido nepotismo ed autoglorificazione negli schemi di valutazione destinati alla calibrazione di investimenti, assunzioni e progressioni di carriera in ambiente universitario. Non sono un assolutista, credo di capire anch'io che il metodo "modello" di valutazione (ideale e perfetto per definizione) non esiste, né può esistere. Dunque lungi da me la malsana idea di attribuire a parametri oggettivi (numero di parole scritte e citazioni ricevute) un valore totale ed indiscutibile. Certo è che i colleghi che fuggono inorriditi di fronte a questi numeri, almeno credo, soffrono di qualche piccolo problema. O si tratta di fobie per i numeri non risolte, oppure i numeri li conoscono benissimo, ma non apprezzano quelli troppo vicini allo zero. "Epsilonfobia", credo si chiami. Già, i libri i fisici non li conoscono (è che a noi non piace troppo scrivere senza fare passare al vaglio da odiati "referee" il frutto delle nostre fatiche - siamo piuttosto masochisti ed anche per questo le case editrici ci snobbano, pazienza). Comunque sia, fra i numeri di cui si parla nessuno vieta di mettere, con pesi e misure appropriati e magari in caratteri "boldface", quanti libri ogni anno il giurista o chicchessia è riuscito a vendere (non a scrivere, ho detto vendere). L'Università italiana è sempre stata, lo dico -purtroppo- senza tema di essere contraddetto, un rifugio per molti birbantelli. Che sono entrati a far parte di questa grande famiglia un po' per caso, sapete com'è andata, porte aperte per tanti, certi concorsi meno seri e convincenti di un'estrazione del super enalotto truccata, e chi più ne ha più ne metta. Qualche miracoloso influsso cosmico sta però sfiorando anche il nostro paese (da decenni si è fatto sentire in molti altri paesi del mondo) e pare che ora, almeno un pochino, non basti ritirare la busta paga e tenere qualche ora di lezione. Lo scandalo del quale i signori di cui sopra parlano è proprio questo: vogliono controllare se e quanto e come lavoriamo, e non si fidano di ciò che dicono i nostri amici e colleghi, magari stranieri. Vogliono proprio "contare" le righe da noi scritte e sapere se, nel buono o nel male (leggi: citazioni "positive" o "negative" - sic - per singhiozzare anch'io) tali righe a qualcuno interessino o se invece stiamo solo contribuendo alla decimazione della foresta amazzonica per spreco di carta. Lo scandalo di cui si parla, se continuerà così, sarà tale che conteranno le ore di lezione "effettivamente" da noi svolte e, questo è il colmo, arriveranno a chiedere se queste lezioni saranno tenute bene. Magari fidandosi del parere degli studenti che ci ascoltano (e ci "citano" poi agli esami). Questi sono i dati oggettivi di cui parla Tosi: il "peer review" è sicuramente un modo intelligente di sondare esperti (ma, siamo sinceri, il più delle volte semplici "opinionisti") per cercare di capire se il nostro nome è noto, se siamo degli "outsider". Io so chi sono gli outsider del mio dipartimento. So che ne parlano bene in giro per il mondo. Ma "vedo" anche una correlazione indiscutibile con gli indici di produttività. Signori, parliamoci chiaro: se i "non-fisici" non si ritrovano in uno schema numerico di valutazione come quello del numero di pubblicazione e del loro impatto culturale, ne trovino pure un altro, ma non venitemi a raccontare che valgono "solamente" le parole ed i giudizi di pur eminenti esperti. Il vero indice di apprezzamento, se non si vuole usare il termine qualità, è la comunità che si interessa al lavoro esposto, pubblicato, scritto, "utilizzato". E questo non può essere misurato se non attraverso metodi di indice bibliografico, con (eventualmente non banali) adattamenti al tipo di settore disciplinare in esame. Continuo a meditare sugli scatti isterici di molti colleghi di fronte alla solita parola "Citation Index". Povero Tosi, nelle sue certezze ha subito la mia stessa (giusta) punizione all'ultima tornata di "concorsi" per professore associato. Abbiamo entrambi scoperto che il nostro Citation Index era pericolosamente più alto, oltre a quello di altri partecipanti poi risultati vincitori, anche di quello di taluni docenti commissari. Mi è stato detto che, pur essendo la mia produzione scientifica oggettivamente eccellente a livello internazionale, non era conosciuta ai commissari nazionali (sic ancora). I quali non conoscevano - nemmeno - il Citation Index. E neppure la mia produttività sul fronte della didattica. Forse è qualcosa di più che una semplice fobia, temo. Lasciate anche a me uno spazio vanaglorioso nonché umile latinismo: "O tempora, o mores". I primi cambiano automaticamente, i secondi no. Bisogna ancora combattere per vederne delle belle.

Stefano Oss
Dipartimento di Fisica