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   memoria   

In ricordo di Lucio Colletti
Il filosofo scomparso il 3 novembre scorso
di Nestore Pirillo

Era il 1989 e avevo pubblicato da poco nella collana dell’Istituto storico Italo-germanico una ricerca sull’Antropologia di Kant. Dovevo per quella ricerca tutto a Pierangelo Schiera che era stato il mio referente scientifico e a Paolo Prodi che mi aveva consentito di accedere alla biblioteca dell’Istituto. Tra gli studiosi a cui avevo inviato il volume c’era anche Lucio Colletti, non solo perché Colletti era un eminente studioso di Kant ma anche perché erano stati i suoi saggi, Ideologia e società e Il marxismo ed Hegel, che mi avevano spinto allo studio del filosofo tedesco. Ricordo ancora le lezioni che Colletti teneva a Roma nei primi anni ’70. In aula, Colletti era un professore attento al testo, rigoroso, freddo e appassionato. Aveva uno stile razionalistico. Legava etica e storia civile, etica e scienza. Ammirava e riconosceva solo la lucidità dell’intelligenza, si annoiava delle bibliografie ed esortava a ragionare i problemi senza preoccupazioni di scuola. Contavano solo la capacità e la libertà di discussione, e un taglio a volte ingenuamente illuministico. Colletti era un marxista eretico ed insegnava più l’eresia che il marxismo. È indimenticabile il sarcasmo con cui parlava del rapporto struttura-sovrastruttura.
Confesso che la recensione ad Ideologia e società e l’entusiasmo espresso in un seminario per la tradizione di studi che risaliva da Colletti a Galvano Della Volpe e a Gentile mi costarono caro: anni di durissimo lavoro e l’antipatia di potentissimi accademici. Esaurita la prospettiva indicata da Colletti, colsi quindi al balzo l’opportunità che mi veniva data a Trento: non solo poter studiare sui testi kantiani e consultare una vastissima letteratura ma poter studiare senza obblighi di scuola, anche se ai margini, come parecchi ricercatori di quel periodo che uscivano fuori dall’esperienza apocalittica degli anni ’70.
Dopo l’invio del volume passarono quasi sei mesi. Poi mi giunse un biglietto. Colletti si scusava per aver perduto di vista il testo sotto una pila di altri studi e mi dava un appuntamento a casa sua, a Roma. A Roma parlammo della fine delle ideologie, degli esiti della sua intervista filosofica. Polemizzammo un poco per la posizione assunta in occasione della morte di Sartre. Mi disse che aveva letto il volume: gli faceva piacere che fossi riuscito a non perdermi nei vicoli ciechi dell’estremismo. Mi regalò con una dedica una copia appena uscita delle Pagine di Filosofia e politica nelle quali aveva raccolto i suoi articoli per l’Espresso. Scoprii che frequentava Roberto Ruffilli, mi disse che vedevano insieme le partite di calcio. Lo invitai allora a Trento e tentai perfino di convincere Schiera ad una discussione “politica” con lui. Naturalmente non se ne fece niente. Dopo un po’ capii che l’elogio della mia ricerca non riguardava Kant ma la strada che avevo preso nel continuare a lavorare senza ortodossie di scuola.
Se dovessi esprimere quello che mi è rimasto dentro della lezione del professor Colletti mi sentirei di dire questo: Colletti non era immediatamente un maestro, indicava prima uno stile di lavoro e si imponeva attraverso questo stile. Per lui la filosofia non era un “linguaggio”! Insegnava che da destra o da sinistra il filosofo era condannato a ragionare sui conflitti, i vizi, le passioni, che strutturano la storia, e che non si può fare filosofia, oggi, senza affrontare quel materialismo ateo e realmente storico che è la scienza moderna.

Nella foto a destra: Lucio Colletti