Odisseo e la ragion di Stato
Il mito dell’eroe da Omero a Sofocle
di Luigi Belloni
La lezione tenuta dalla professoressa Olimpia Imperio
dell’Università di Bari, lo scorso 4 dicembre, si è inserita nei corsi annuali di Letteratura greca e
di Storia del teatro e dello spettacolo, ed ha sviluppato un aspetto particolare dell’eroe
omerico, che sarà anche gran parte della sua fortuna letteraria, quale solo una sensibilità nuova
poteva delineare per Odisseo, ormai destinato a misurarsi con un mondo diverso e a divenire
paradigma di situazioni contraddittorie per l’uomo delle età successive a quella omerica.
Ma soprattutto la lezione dal titolo Odisseo e la ragion di Stato;
l’Aiace e il Filottete di Sofocle intendeva richiamare a un pubblico
moderno l’antica contiguità fra due generi letterari - il poema omerico e la tragedia - giunti
al vertice del loro sviluppo e che, pur mantenendo l’identità acquisita nel corso della loro genesi,
erano tuttavia aperti a reciproche interferenze, a mutuazioni che poi contribuiranno alla
loro vitalità e diffusione. Appunto, alla loro fortuna letteraria.
Nel suo avvio, l’Odissea introduce il protagonista “dai molti percorsi”, segnato da un destino avverso che
ritarda la fine delle sue peregrinazioni e che accresce in lui il desiderio di “vedere il dì del ritorno”; nonostante a
circostanze avverse si aggiungano contingenze umane che rendono il recupero del focolare domestico non solo
arduo per il protagonista, ma anche singolare per la sensibilità di un pubblico antico. Nel
lasso di tempo intercorso fra la caduta di Troia e la fase ultima del vagare di Odisseo, gli anni - venti!
- sono trascorsi anche per Penelope: la sua bellezza, ormai, sicuramente
non sarebbe più in grado di competere con quella di Calipso, che insieme
al suo amore può offrire a Odisseo anche eterna giovinezza e immortalità.
Per realizzare il suo fine, l’eroe omerico impronta il suo agire a due qualità complementari
della sua identità eroica: la conoscenza e l’astuzia. Se il valore del guerriero non viene mai
meno, è la duttilità del pensiero quella che permette a Odisseo di superare
le insidie degli uomini e persino l’ira di un dio; anche di trattenere se stesso al di qua di un atteggiamento tracotante che
invece perderà tutti i suoi compagni. Riconosciamo in questo comportamento già i tratti che caratterizzeranno l’uomo del
maturo arcaismo e del periodo classico, anche se la duttilità, il ricorso all’inganno, nel poema omerico, rimangono peculiari
al “singolo”: l’astuzia di Odisseo vale per colui che deve salvare, non investe ancora - se non marginalmente - il rapporto
di questo individuo con i componenti di una comunità. Comunità che rimane sullo sfondo, chiamata a
collaborare per facilitare il ritorno - è il caso dei Feaci - o magari desiderosa di
fagocitarlo, come si verifica con i pretendenti alla successione di Odisseo; ma che
lascia l’eroe solo con se stesso quando si tratta di dirimere le situazioni più intricate,
di contrastare le traversie di un naufragio senza fine.
L’Odisseo della tragedia di Sofocle, invece, pur serbando la sua identità eroica,
si misura con idee nuove, anzi con modelli di vita che si discostano dalla “nobiltà”
degli ideali omerici e anche da una prassi che la città greca aveva consolidato
fra i secoli VII e VI. In primo luogo, una “ragion di Stato” viene a esistere, ad
essere condizionante, quando il rapporto fra individuo e comunità - che lo spirito
civico della polis aveva attuato integralmente, persino in certe forme di “democrazia
radicale” - conosce una crisi, dovuta a inevitabili conseguenze: la città non era
più il cosmo ideale, lo spazio in cui la comunità poteva riconoscersi, forte di un vincolo
del sangue, della stirpe, che aveva plasmato l’impegno di intere generazioni; era ora luogo
di iniziative che ritornavano a un modello individualistico e che infatti determineranno
l’affermarsi del disimpegno civico. La città non era più “La Scuola
dell’Ellade”, ma soprattutto, in materia di etica, luogo che favoriva
al suo interno come all’esterno diverse forme di “integralismo”. Ecco,
allora, l’ideale perdere la sua dimensione assoluta e rivestirsi di forme d’inquietudine,
le medesime che agitano il quotidiano, che accompagnano l’uomo greco nel suo “progresso”, divenuto un cammino sempre più faticoso, anche se
tuttora stimolante nelle sfide richieste dagli eventi. Un eroe come Odisseo, nel
Filottete di Sofocle, sminuisce le virtù tradizionali, “approfitta” delle proprie capacità
intellettive per ingannare quel Filottete che a motivo della sua ferita è
stato ritenuto “inutile” e abbandonato dai suoi compagni. Ma ora un oracolo ha
rivelato che il suo arco è necessario per conquistare Troia e, dunque, Filottete
deve essere recuperato alla comunità nel nome di un “interesse”, del “particolare”,
di contingenze che l’etica comportamentale dell’età eroica non avrebbe mai
preso in considerazione. La versatilità di Odisseo, la sua perizia nel dirimere le
situazioni più complesse, vengono devolute a un “utile” che distanzia l’ideale
antico, rendendolo un’utopia: come è possibile continuare a credere che l’eroismo di Filottete abbia credito,
che coesista con l’atteggiamento di Odisseo, con la nuova realtà? Magari continuerà ad essere ammirato,
ma appare sempre più inverosimile che possa rimanere un modello di comportamento.
La frattura con le certezze del passato è anche più significativa
nell’Aiace, la più antica tragedia di Sofocle a noi pervenuta, che vede la parabola discendente
dell’eroe provvisto di un nobile passato: la contesa per le armi di Achille, la loro assegnazione ad
Odisseo - dunque ritenuto il migliore dei Greci - hanno provocato l’ira e, poi, la follia omicida di Aiace,
che avrebbe sterminato i capi dell’esercito acheo se Atena non ne avesse dirottato la furia sulle greggi
dell’accampamento. Ma quale fine per due simboli della virtù guerriera fra
loro indivisibili, per l’eroe e le sue armi! Odisseo non si avvale del privilegio che
Agamennone e gli altri capi gli riconoscono; prova anzi commiserazione per lo stato di Aiace e dall’episodio
- persino dal comportamento di Atena - coglie l’opportunità per riflettere
sull’incertezza insita negli eventi umani.
Due interpretazioni del mito eroico, queste, imperniate sulla figura di un nuovo
Odisseo che la relazione di Olimpia Imperio ha saputo inserire efficacemente
nella poetica di Sofocle: nella forma letteraria di una tragedia tanto “perfetta” nel
suo esito stilistico quanto tormentata nella sua ispirazione, nel modo di sollecitare
interrogativi presso il pubblico. Un teatro che si apre a suggestioni umanistiche ma che non si limita a
“semplificare” un mondo un tempo ritenuto degno di emulazione. Secondo uno schema interpretativo -
l’inquietudine sorta da certezze antiche - che tanta fortuna avrà nel teatro dell’Europa contemporanea
e moderna; ma che, soprattutto, dimostra le affinità fra il racconto epico e la
performance teatrale, il cui spazio scenico usufruiva di miti - oggi diremmo di
contenuti - che erano patrimonio comune di una cultura. Già in età antica, ma
ancor più in età moderna, il pubblico del teatro appare destinatario di un messaggio
nel quale la ricezione di un testo accresce le ragioni di un generale coinvolgimento;
come se la cavea del teatro di Dioniso realmente si integrasse in quella città che non era tanto costituita dai suoi splendidi edifici, quanto dallo
spirito civico che ancora aggregava tutti i suoi componenti.
Sopra: statua di Sofocle, copia romana in marmo da un originale del 340 a.c., dal volume
di J. J. Pollit,
Art and Experience in Classical Greece, Cambridge University Press, 1987;
a destra: la professoressa Olimpia Imperio dell’Università di Bari;
in basso: Odisseo e le sirene, da una pittura vascolare greca.
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