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La lezione di Milan Kundera
L’originalità di ogni individuo non si rivela che nell’imitazione
di Massimo Rizzante

Quando circa dieci anni fa sbarcai a Parigi, stavo andando a picco, proprio mentre, ironia della sorte, alcuni philosophes de la dérive, che seguivo allora con innocente fervore, prendevano il largo dalle coste francesi per raggiungere i lontani lidi dell’East Coast americana. Non potendo occuparmi dei nuovi ermeneuti, cominciai allora ad interrogarmi sulle ragioni del mio sprofondamento, lento e inesorabile. Forse proprio perché stavo sprofondando, mi limitai a pormi delle domande superficiali, leggere, irriverenti. Domande sul valore dell’opera, ad esempio. Sul perché gran parte della critica utilizzasse un gergo privo di contatti con la realtà. O si accanisse in definizioni normative sul funzionamento di quel meccanismo a orologeria dal cuore umano che è ogni grande opera letteraria.
Fu a quel punto che la lettura della prosa di Calvino e i seminari sul romanzo di Kundera mi vennero in soccorso. Come? Mi imposero un’interpretazione delle opere libera da pregiudizi teorici e ideologici. Fu come ritornare di nuovo sui banchi di scuola.
Nell’Arte del romanzo Kundera pone Calvino tra i romanzieri e non tra gli scrittori in prosa (nell’ultima edizione francese del 1998 il nome di Calvino è scomparso dalla lista dei romanzieri). Mentre il romanziere, dice Kundera “non dà grande importanza alle proprie idee. È uno scopritore che, a tentoni, si sforza di svelare un aspetto sconosciuto dell’esistenza”, lo scrittore “ha delle idee originali e una voce inimitabile. Può servirsi di qualsiasi forma (compreso il romanzo) e tutto ciò che scrive, essendo contrassegnato dal suo pensiero, esposto dalla sua voce, fa parte della sua opera”.
Durante uno dei suoi ultimi corsi, il cui titolo era “Romanzo e musica” - si ascoltava in effetti, grazie a un registratore portatile, molta musica; soprattutto Beethoven; soprattutto sonate; mi ricordo anche di un cartello affisso fuori dalla porta su cui c’era scritto: “Non disturbare. Trasmissione radiofonica” - gli feci notare che mi era sempre più difficile leggere Calvino e cogliere il suo valore all’interno della storia del romanzo. Kundera mi rispose in modo un po’ sornione che probabilmente avevo ragione: “Forse le nostre fonti sono diverse.” Che voleva dire? Che le fonti di uno scrittore in prosa non sono le stesse di quelle di un romanziere? Che l’amore di Calvino per Ariosto e la sua ironia cosmica era lontano da quello che egli provava per Rabelais e Cervantes?
Compresi quanto per Kundera (a differenza di Calvino) il romanzo non fosse un genere tra gli altri ma un’arte indipendente, autonoma, con una sua storia e una sua estetica, proprio come la musica, la poesia, il cinema. Di più: per lui il romanzo era stato prima una sorta di “conversione” dall’atteggiamento lirico della giovinezza e poi uno sguardo adulto sull’esistenza umana, nato proprio dalle rovine del lirismo.
“Due fedeltà - ripeteva spesso - mi definiscono: quella all’arte moderna e quella all’arte del romanzo”. Kundera compie una sintesi: rivendica attraverso la sua opera tutta la tradizione moderna del romanzo, da Rabelais e Cervantes fino alla grande immaginazione dei romanzieri latinoamericani (Márquez e i suoi Cent’anni di solitudine e Terra nostra di Carlos Fuentes erano spesso citati durante i corsi), immaginazione che egli riconosce, grazie a quella che chiama comune “esperienza traumatizzante del barocco”, sorprendentemente vicina a quella dell’Europa centrale (Non è stato Márquez a dire che senza Kafka la novela latinoamericana del XX secolo non sarebbe nata?).
Ma la categoria del “moderno” sembra appartenere al passato. Così forse come quella dell’arte moderna. Non foss’altro che per il ritmo forsennato di produzione e consumo di “beni artistici” di cui siamo testimoni, o meglio spettatori. A questo “prestissimo” in cui l’oggi si avvicenda all’oggi, Kundera oppone la propria fedeltà al dialogo con chi l’ha preceduto: perché essere moderni per lui significa come per Gombrowicz, suo alleato nella lotta contro gli “agelasti” (coloro che non sanno ridere, che intrattengono un brutto rapporto con la comicità), “per mezzo di nuove scoperte avanzare sulla strada ereditata”.
Dai tempi dei miei seminari kunderiani, ho ereditato molte cose. Ma una soprattutto cerco di trasmettere a mia volta agli studenti: che l’originalità di ogni individuo non si rivela che nell’imitazione. L’uomo non può non imitare gli altri: coloro che l’hanno preceduto come i suoi contemporanei. Egli, cioè, non può che compiere un’inesauribile variazione sul tema che egli stesso è.

 

 

Foto al centro a sinistra: Karel Kosík e Milan Kundera a Praga, 1973
In basso a sinistra: Milan Kundera in una caricatura di Adolf Hoffmeister, 1968
In alto a destra: Milan Kundera
In basso a destra : "Scherzo" di Milan Kundera


 

Il numero 20 della rivista monografica Riga, diretta da Marco Belpoliti, è stato dedicata a Milan Kundera. Il volume presenta scritti inediti o poco conosciuti dello scrittore, insieme a contributi di artisti, romanzieri e critici che formano quell’atelier storico e ideale che Kundera è riuscito a creare e a coltivare. L’opera è stata curata da Massimo Rizzante al quale abbiamo chiesto di parlarci di Milan Kundera.


Sopra: il volume 20 della rivista Riga