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  memoria  

Norberto Bobbio, in memoriam

Uno degli ultimi grandi intellettuali europei ci ha recentemente lasciato: Norberto Bobbio. Per la nostra università è un lutto grave: Bobbio era stato chiamato a presiedere il Comitato Ordinatore della Facoltà di Sociologia insieme a Boldrini ed Andreatta allorché vi fu il riconoscimento statale dell’Istituto Superiore di Scienze Sociali nel 1966. Dai primi anni ‘70 aveva lasciato l’incarico non interrompendo però mai i legami con la Facoltà e difendendola in momenti difficili. Il suo rapporto con il movimento degli studenti non fu affatto  facile ma egli non se ne lamentò mai, preferendo porre l’accento sul nuovo di cui il movimento era portatore.
Ultimamente ci aveva dato il permesso di riprodurre un suo intervento a Trento in occasione di uno degli anniversari della Facoltà.
Pensiamo pubblicandolo di rendere così omaggio alla sua memoria.

Gli anni trentini furono anni di passione
di Norberto Bobbio

Le mie osservazioni sono quelle di una persona che apparteneva, e che appartiene naturalmente tutt’ora, ad un’altra generazione, anche rispetto ai docenti miei colleghi. Beniamino Andreatta, che mi aspettavo di trovare qui, sosteneva, a ragione o a torto, di essere stato mio allievo a Padova. Anche Bruno Kessler lo è stato, ma lui non frequentava, a quanto mi disse altre volte. Appartengo alla generazione dei padri nel pieno senso della parola, una generazione che riteneva ormai diventato stabile, sicuro ed indiscutibile, il nostro sistema democratico e sempre vivi i valori della Resistenza, anche se fra gli ideali della Resistenza e la realtà della società italiana la corrispondenza esisteva ormai soltanto nella retorica dei discorsi ufficiali che ci venivano rinfacciati proprio dai nostri figli. Non sono soltanto una persona dell’altra generazione, ma in quella circostanza stavo dall’altra parte della cattedra rispetto agli studenti e, se vogliamo riferirci alla situazione di scontro permanente di quegli anni, dall’altra parte della barricata.
Per dire tutto in una battuta, con una metafora, il Sessantotto sopraggiunse a una persona come me, e ad altri della mia generazione, come un fulmine a ciel sereno; fuori di metafora, come un evento improvviso, imprevisto, che ci colse assolutamente impreparati. Ancora adesso del resto appare difficile, non solo a me ma a tutti coloro che ebbero la mia stessa esperienza, trovare una soddisfacente spiegazione di quello che avvenne fra il 1967 ed il 1968, non solo in Italia, ma in quasi tutto il mondo; un fenomeno - per usare un’altra metafora - simile ad una mareggiata impetuosa e, proprio perché impetuosa, destinato ad essere di breve durata. Gli storici continuano ad interrogarsi sulle interpretazioni del Sessantotto. Sono stati scritti e si scriveranno per questo anno centinaia di pagine sull’avvenimento. Io credo che le interpretazioni del Sessantotto possono essere riassunte brevemente, schematicamente, nel modo seguente. C’è una interpretazione negativa, secondo la quale il Sessantotto è stato l’ultima rivoluzione o per lo meno è stato la rivoluzione messa in atto da parte di coloro che non si erano resi conto che nelle società industriali avanzate le rivoluzioni non potevano più aver luogo. Le rivoluzioni erano state un fenomeno caratteristico dell’Europa Orientale dopo la prima guerra mondiale, sarebbero forse avvenute nel Terzo mondo, ma nelle società occidentali avanzate erano ormai diventate impossibili. Una interpretazione positiva, invece, è quella secondo cui il Sessantotto non è stato la fine d’un epoca, ma l’anticipazione di una società futura, in cui i soggetti rivoluzionari non furono più i proletari delle società più avanzate ma gli emarginati, i poveri, i carcerati, quelli che in un libro allora molto letto, venivano chiamati “i dannati della Terra”. Infine c’è una terza interpretazione: il Sessantotto non è stato né la conclusione né il principio di un ciclo, ma è stato un’esplosione spontanea, un fuoco di paglia, una bolla di sapone che sarebbe scoppiata rapidamente e non avrebbe lasciato molte tracce: un evento isolato senza un prima e senza un dopo. Alla sinistra moderata cui io appartenevo, gli anni Sessanta (tanto per intenderci gli anni del centro-sinistra) apparivano ed appaiono tutt’ora anni di assestamento positivo del nostro sistema politico.
Dopo gli anni della crescita economica il nostro paese sembrava definitivamente uscito dal periodo della ricostruzione, dello scontro sociale diretto, che negli anni precedenti aveva minacciato la nostra democrazia. Avevamo interpretato l’incontro tra la DC ed il partito socialista ottimisticamente – e, a conti fatti, ora direi anche illusoriamente – come un evento di portata storica, come un fecondo connubio che non era mai riuscito alle generazioni precedenti. Voglio ricordare che allora il partito socialista aveva ancora profonde radici nel proprio passato, anche se era stato menomato dalla scissione PSIUP. Si considerava un partito della sinistra storica. La distinzione tra destra e sinistra che si è andata a poco a poco affievolendo esisteva ancora. Il partito socialista si riteneva un partito di sinistra e riteneva di poter fare una politica di sinistra nella cornice di un regime democratico, quale era stato fissato nella Costituzione e che anche i comunisti rispettavano, non soltanto a parole, ma con i fatti. In realtà le cose non corrisposero alle nostre aspettative, alle nostre false speranze.
Nel 1964 Giorgio Amendola avanzava, da Rinascita, la proposta del partito unico della classe operaia, anche rinunciando al nome tradizionale di partito comunista, per costituire una vera alternativa al sistema e far diventare il sistema che Giorgio Galli aveva definito, alla fine degli anni Cinquanta, di bipartismo imperfetto, un vero sistema politico democratico fondato sull’alternativa.
In realtà, invece della creazione del partito unico della classe operaia, che del resto lo stesso partito comunista respinse, vi fu, alle soglie del Sessantotto, l’affrettata, mal preparata e peggio eseguita unificazione socialista, che fallì e diede la stura ad una serie di governi, dal Sessantotto in poi, sempre più deboli.
Fu un brutto segno: era un segno che il nostro sistema politico era tutt’altro che assestato. Cominciava proprio nel Sessantotto l’anno delle legislature troncate anzitempo. Nei primi venti anni c’erano state quattro legislature regolari, nei successivi venti anni ce ne sono state cinque e mezzo.
Fu un brutto segno, dicevo, ma non scalfì il nostro moderato ottimismo, la convinzione che si fosse entrati nell’era della stabilità e, per usare un noto slogan della Democrazia Cristiana, una fase di progresso senza avventure.
Invece doveva cominciare proprio in quegli anni un’era avventurosa, probabilmente senza progresso. Anche per quel che riguarda l’università, dove cominciava lo scardinamento di quell’assetto che ormai credevamo fosse diventato molto meno fragile di quanto fosse in realtà, non avevamo - mi riferisco ai docenti della mia generazione - alcun sentore della tempesta.
Eravamo perfettamente consapevoli che occorreva una riforma. Si era arrivati al momento della cosiddetta riforma Gui, anche se già subito dopo la guerra, si era affacciata l’idea di una riforma. Ma la nostra idea di riforma andava in una direzione perfettamente opposta a quella che sarebbe stata avanzata tumultuosamente dagli studenti. La nostra era una proposta di riforma tecnocratica dell’università. Era stato pubblicato in quegli anni un libro, nel quale molti di noi si erano rispecchiati, intitolato L’università come impresa, scritto da un colto ingegnere della Olivetti. Vi si affrontava il problema di trasformare il grande apparato burocratico dell’università statale, che non riusciva più a funzionare, in una impresa flessibile, ben governata e ben diretta come poteva essere una grande impresa industriale. L’università avrebbe dovuto essere ristrutturata appunto come una impresa dinamica, snella, agile, senza pastoie, esigente nella direzione degli studi, ma flessibile nel disbrigo delle pratiche burocratiche. Ciò era esattamente l’opposto di quello che avveniva nell’università italiana che era lassista nella disciplina degli studi e rigida nell’apparato burocratico. Università all’americana insomma, non ho esitazione a dirlo. Le frontiere erano aperte. Più viaggiavamo, più ci rendevamo conto che le università degli altri paesi funzionavano meglio. Quando andavamo negli Stati Uniti tornavamo con due impressioni fondamentali: che vi fosse meno autoritarismo nei rapporti tra professori e studenti e nello stesso tempo maggiore efficienza nell’amministrazione. Si tenga presente che questa idea nasceva in una situazione in cui si predicava la fine delle ideologie e, a furia di predicarla, si era convinti che le ideologie fossero sparite.
La politica del centro-sinistra era ispirata alla convinzione che la politica ideologica dovesse lasciare il posto alla politica pragmatica, alla politica delle cose e non delle parole. Mentre stavamo riponendo tutte le nostre speranze nella università come impresa, scoppiò la contestazione che mirava a fare dell’università, non un laboratorio tecnologicamente perfetto, ma un’assemblea permanente. Alla burocrazia non stava per succedere la tecnocrazia ma, per usare una parola dotta utilizzata dagli antichi e poi ripresa da alcuni moderni, la teatrocrazia.
Come esempio di teatrocrazia l’istituto di sociologia di Trento non fu secondo a nessuno. Avevo già avuto le mie prime esperienze a Torino dove Palazzo Campana era stato occupato alla fine del 1967. Proprio pochi giorni dopo un mio ritorno dagli Stati Uniti ebbi notizia dell’occupazione. Alcuni mesi prima, in una intervista sui problemi dell’università avevo detto che le cose andavano molto bene, perché finalmente si era riusciti a separare l’università dalla politica e a fare della prima (non so se abbia veramente usato questa espressione retorica) il tempio del sapere. Del resto continuavo a dire agli studenti che la politica deve restare al di fuori dell’università. Molti professori erano impegnati politicamente, ma la politica era una, lo studio un’altra. Ero solito citare una famosa frase di Max Weber, in un suo saggio notissimo dal titolo La politica come vocazione e come professione. Agli studenti che dopo la prima guerra mondiale e dopo la sconfitta della Germania gli chiedevano di dar loro indicazioni politiche rispondeva: “La cattedra non è per i profeti né per i demagoghi.”
Quando arrivammo per la prima volta a Trento, nel febbraio-marzo 1968 (facevo parte del comitato tecnico composto anche da Boldrini e da Andreatta), l’università era occupata. Il vecchio e saggio Boldrini dovette affrontare gli studenti con un discorso che si mantenne naturalmente sui due binari obbligati del richiamo severo ai principi da un lato, e del tentativo della captatio benevolentiae dall’altro, non ci fu uno scontro. Ci furono esclamazioni, qualche interruzione, ma non un solo atto di violenza, neppure verbale. Ormai il ghiaccio era rotto. Non tutto andò sempre liscio, ma non si arrivò mai al dramma. Gli unici drammi che furono rappresentati in questa università furono quelli che l’esimio professor Spaltro, che vedo qui presente, faceva recitare a lezione, se ricordo bene, con qualche scandalo, anche agli esami. Scene fastidiose, irritanti, alcune anche spiacevoli, ci furono. Ricordo ancora adesso, con senso di orrore, la richiesta da parte di alcuni studenti del voto politico, un tipo di voto che mi faceva tornare alla memoria il voto fascista, quello che chiedevano gli universitari che andavano in guerra (ma allora la guerra c’era sul serio). Mi ha rammentato in questi giorni il professor Scoppola, che ho incontrato al Senato, di essere stato rimproverato perché pretendeva di fare lezione. Evidentemente le lezioni non erano gradite ed egli era stato rimproverato di aver provocato gli studenti pretendendo che andassero alle lezioni. Che pretese assurde! La mancanza di disciplina aveva un aspetto positivo, secondo me, per gli studenti molto dotati, ma era negativa per gli studenti poco motivati che spesso trovavano modo, attraverso la contestazione, di evitare gli studi più difficili. È inutile ricordare i primi anni in cui la bestia nera degli studenti era il professore di matematica Volpato. In quegli anni non ho mai sprecato tanto fiato per spiegare che ogni forma di apprendimento, da quello di leggere e scrivere a quello della matematica e della logica, costa molta fatica e non ci sono scorciatoie per arrivare al sapere. In complesso non ho affatto un cattivo ricordo degli anni trentini; furono anni di passione, anche di arrabbiature, per una persona non più giovane come me, a differenza di altri colleghi, e qualche volta anche di sconforto, ma ci furono pure momenti di vivace sollecitazione intellettuale, soprattutto nei rapporti con i colleghi. Devo confessare che, dopo due anni dal 1968 al 1970, noi del comitato tecnico fummo responsabili, insieme all’allora presidente Kessler, di quella che fu chiamata la restaurazione. Quando tenni una conferenza qui a Trento, due mesi fa, la chiamai il Termidoro. Noi fummo coloro che instaurammo il Termidoro. Comunque alla fine del 1970 la contestazione si stava già esaurendo. Allora, ho detto, fummo colti di sorpresa, perché ritenevamo fossimo in una fase di assestamento progressivo e durevole. Personalmente ritengo che di marcio in Danimarca, come è stato detto stamattina, oggi ce ne sia ancora molto, più adesso che allora. Ma, guarda un po’, ora non succede niente. A meno che, signori ed amici, non mi sbagli ancora una volta.

[Estratto dall’intervento inedito di Norberto Bobbio al convegno Trento vent’anni dopo, Trento 27-28 febbraio 1988, carte V. Calì, b. 14, f. 2, CDR, Museo Storico in Trento.]

 

In alto: Norberto Bobbio durante il convegno Trento vent’anni dopo, Trento 27-28 febbraio 1988,
(foto depositate presso il Museo Storico in Trento);
sopra, da sinistra: Marco Boato, Beniamino Andreatta, Norberto Bobbio, Marcello Boldrini
(foto di Paolo Padova, 31.3.1968, presso il Museo Storico in Trento).
sotto da sinistra: Fabio Ferrari, Marco Boato, Bruno Kessler, Norberto Bobbio, Giorgio Galli durante il convegno
Trento
vent’anni dopo, Trento 27-28 febbraio 1988 (foto depositate presso il Museo Storico in Trento).

 


 

Norberto Bobbio

Norberto Bobbio è nato a Torino nel 1909. Al Liceo Massimo D’Azeglio conosce Vittorio Foa, Leone Ginzburg e Cesare Pavese. Si laurea in legge e in filosofia. 
Dopo aver studiato Filosofia del diritto con Solari, insegna questa disciplina a Camerino (1935-38), a Siena (1938-40) e a Padova (1940-48). Frequenta vari gruppi di antifascisti e collabora con il gruppo torinese di Giustizia e Libertà. Nel 1942 aderisce al Partito d’Azione, collabora con la Resistenza e nel 1943 viene arrestato. 
Nel dopoguerra insegna Filosofia del diritto (1948-72) e Filosofia della politica (1972-79) all’Università di Torino. Nel 1970 è direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento.
Dal 1979 è professore emerito dell’Università di Torino e socio nazionale dell’Accademia dei Lincei.
Nel luglio del 1984 è nominato senatore a vita. 
Il grande filosofo è scomparso il 9 gennaio 2004.
Il suo testamento filosofico e politico è contenuto nella sua vasta produzione intellettuale classificata al Centro Studi Piero Gobetti di Torino in circa 5.000 titoli tra volumi, saggi lezioni e articoli. Tra le sue opere ricordiamo: La filosofia del decadentismo (1944), Teoria dell’ordinamento giuridico (1960), Da Hobbes a Marx (1965), Quale socialismo? (1976), Destra e sinistra (1994), Autobiografia (1999), Dialogo intorno alla repubblica (2001).