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  intervista  

Cattelan e la molteplicità dell’arte
intervista di Francesca Menna a Maurizio Cattelan



 

L'opera di Maurizio Cattelan, MIni-me, 1999, resina gomma, tessuto, capelli, pittura, h.35 cm.

Come è nata la sua carriera artistica? È stato un caso, una scelta maturata con gli anni o fin da piccolo diceva che da grande avrebbe fatto l’artista?
No, all’arte sono arrivato quasi per caso, in assenza di altre prospettive professionali, come si dice. Da piccolo, come tutti, volevo fare il pompiere, poi a un certo punto devo avere deciso che, invece di gettare acqua sul fuoco, era arrivato il momento di alimentare le fiamme.

Qual è per lei il fine dell’arte?
Non mi piace pensare al singolare: credere in un unico fine o in unico mezzo. L’arte, per fortuna, si può permettere il lusso della complessità e della varietà: è la pubblicità che ha bisogno di un unico fine, di un solo slogan. L’arte serve proprio per sottrarsi alla dittatura dell’unico: è un modo per essere molteplici.

Che cosa vuole esprimere con le sue opere?
Niente. L’espressione e il significato spettano agli altri, a chi guarda l’arte e si interroga e trova una risposta. L’arte è vuota, trasparente: è un dispositivo per mettere in moto interpretazioni che appartengono agli altri. Alla fine, sono gli spettatori a fare il lavoro degli artisti.

Che significato ha per lei la laurea honoris causa dell’Università di Trento?
Sono onorato, commosso e confuso. Spero solo di non essere un cattivo esempio. Ho sempre cercato di stare lontano dalla scuola e all’improvviso mi ritrovo con una laurea: ciò che mi piace davvero è che in fondo la laurea non viene data solo a me. È una laurea che va anche a tutti quelli che hanno trovato un’interpretazione o un significato per il mio lavoro. È una laurea per gli spettatori.

Un commento sull’opera esposta nell’atrio della Facoltà di Sociologia?
Non sono molto bravo a inventare commenti sul mio lavoro: è un’immagine, e forse anche la più ovvia. Non c’è niente di più banale che un asino all’università. Forse, per una volta soltanto, sarebbe bello inventarsi un’università dove gli asini danno i voti e gli alunni più bravi si vergognano, anche solo per un giorno.