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  incontro con l'autore  

Joseph Zoderer e la scoperta inattesa
Lo scrittore altoatesino alla Facoltà di Lettere
di Massimo Rizzante

 

Massimo Rizzante

Nell’agosto del 1912 Franz Kafka affida all’editore Rowohlt una raccolta di diciotto brevi testi: Betrachtung (Meditazione). Il più lungo di questi brevi racconti si intitola Essere infelici. È la storia di un uomo che dopo aver terminato il proprio lavoro in ufficio, rientra a casa e incontra un fantasma. Si tratta di un “piccolo fantasma”. L’uomo prende talmente sul serio il piccolo fantasma che il lettore è costretto a crederlo un bambino. Ma il bambino parla come un adulto. Rassicura l’uomo. Quest’ultimo ha paura che gli inquilini del palazzo dove vive li stiano spiando: che cos’altro potrebbero fare “nella libertà provvisoria della sera”? Tra i due ci sono spesso dei malintesi. Il piccolo fantasma si sente minacciato. L’uomo, al contrario, è felice di vederlo; non ha affatto intenzione di litigare. Tuttavia qualcosa tra i due si rompe: “Un estraneo - dice l’uomo - sarebbe certo più gentile di lei”. “Lo credo; non è una scoperta”, risponde il bambino rivendicando la propria natura di fantasma. L’uomo allora si arrabbia: “Davvero? Anche questo osa dire? È un po’ troppo ardito. In fondo lei è nella mia stanza. Lei sta fregando pazzamente le dita alla mia parete. La mia stanza, la mia parete!”.
La situazione è inverosimile. Tuttavia la stanza è una stanza, le pareti sono delle pareti! Sogno e realtà si toccano, dialogano come un impiegato e un bambino fantasma. Kafka, come ha detto Milan Kundera, ha scoperto il romanzo come luogo dove l’immaginazione “può affrancarsi dall’imperativo apparentemente ineluttabile della verosimiglianza”. Ciò non significa né che Kafka ha rifiutato completamente la tecnica della descrizione né che la sua immaginazione ha disertato la vita concreta degli uomini.
Ora, nella prosa di Joseph Zoderer persiste la possibilità tutta kafkiana di “affrancarsi dall’imperativo apparentemente ineluttabile della verosimiglianza”, imperativo imposto al romanzo del XX secolo da parte del romanzo del XIX secolo. Solo che la possibilità resta tale: il matrimonio tra sogno e realtà non si consuma completamente. Ciò che resta è comunque molto. Almeno tre doti o qualità, a mio modo di vedere, caratterizzano l’arte romanzesca di Zoderer.
C’è la dote (che personalmente ho scoperto leggendo Lontano e Il silenzio dell’acqua sotto il ghiaccio) dello “straniamento”, la capacità dell’autore di avanzare rallentando il ritmo della percezione degli oggetti e degli esseri, e creando così attorno alle situazioni quotidiane e famigliari dell’esistenza un’aura di “arcanità”. Lo straniamento è, nel caso di Zoderer, non solo un procedimento letterario, ma anche una conditio, un marchio di fabbrica originario: per pochi scrittori come per Zoderer si può leggere un legame così stretto tra l’estraneità – la posizione di straniero nel mondo propria dell’artista – e il suo riflesso nell’opera. D’altra parte, che senso avrebbe lo straniamento nell’opera senza l’estraneità dell’artista?
C’è poi un’altra qualità, che mi sembra riassunta in un bel passaggio de La felicità di lavarsi le mani: “Il male più difficile da estirpare era l’apparente normalità. La realtà aveva una trama assai complessa. Una rete di trappole invisibili”.
L’avanzare della prosa per accumulazione di sensazioni e descrizioni conduce il lettore di Zoderer nell’occhio di un ciclone, in una zona apparentemente calma dove le cose e gli individui vengono penetrati così a fondo da superare la frontiera della normalità. La normalità, infatti, è sempre “apparente”, nasconde la reale complessità e una “rete di trappole invisibili”. La vera dote di Zoderer è che questa complessità viene esplorata attraverso un regime metaforico ben temperato, essenziale, privo di esibizionismi: riflesso di una voluta economia sentimentale.
C’è, infine, una terza qualità, che leggendo L’abbandono, altra tappa dell’infinito avvicinamento di Zoderer verso la sua Heimat, mi è sembrata decisiva.
La prosa di Zoderer, anche quando si cimenta nel ricordo, non abbellisce la realtà, non si guarda allo specchio. Essa non desidera essere ammirata. La sua morale non è infatti la bellezza in sé, ma la comprensione. In questo, a mio modo di vedere, essa rappresenta perfino un antidoto contro quello che Hermann Broch chiamava Kitsch: “Desiderate un esempio addirittura mostruoso di Kitsch? Nerone che suona il liuto davanti ai fuochi pirotecnici dei corpi dei cristiani in fiamme. Ecco il dilettante per eccellenza, l’esteta per eccellenza che è pronto a sacrificare ogni cosa per un effetto”.
Oggi che gli antichi sono dimenticati, il Kitsch ha libero imperio nell’arte. Una delle poche terapie è abbandonarsi con il giusto distacco alla prosa di Joseph Zoderer, il quale è pronto a sacrificare ogni cosa non per il Bello, ma per il Bene dei lettori. Ovvero: per la scoperta inattesa di una parte di tutti noi.

Joseph Zoderer (foto Dino Panato)

Lo scrittore Joseph Zoderer ha partecipato il 21 aprile scorso ad un incontro seminariale dal titolo “Solo altrove” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Trento, su invito dal Collegio docenti del dottorato in Narratività e letterature comparate.