n°2

  come cambia l'università  

I gap dell'università

In Italia, in un secolo, gli studenti sono cresciuti di quasi 100 volte, eppure le regole dell'organizzazione e della didattica dell'università sono rimaste le stesse. Non è più un problema di quantità, ora è indispensabile cambiare. L'Università di Trento, giovane e di piccole dimensioni, può ottenere buoni risultati: riorganizzandosi, rivedendo i ruoli dei soggetti istituzionali che in essa operano e anche colmando la distanza tra studio e mondo del lavoro.

Efficienza ed efficacia, insieme
di Gianfranco Cerea

Nel corso di questo secolo gli iscritti alle università italiane sono cresciuti di quasi 100 volte. Alla fine della prima guerra mondiale, ad esempio, gli studenti erano in numero inferiore a quello degli attuali iscritti all'Università di Trento.
Ma non basta. Oltre alla crescita degli iscritti, l'istruzione universitaria si è dovuta anche confrontare con una progressione quanto mai consistente del sapere scientifico, che ha toccato sia l'area più strettamente tecnica che quella più tipicamente umanistica.
Questa crescita impetuosa è stata affrontata avendo a riferimento forme di organizzazione dell'università, della didattica e dei curricula degli studi che sono rimasti per larga parte influenzati in modo significativo da una impostazione nata quasi un secolo fa, con pochi studenti e relativamente poche cose da sapere.
In questo senso si può affermare che l'università, presa nel suo complesso, non si è mai adattata a queste nuove situazioni o lo ha fatto senza rivedere "il processo di produzione".
Acriticamente ha allargato l'offerta didattica in termini di corsi ed esami, ha aumentato il numero dei docenti impiegati, ha moltiplicato le sedi ma, come quasi un secolo fa, verifica il sapere come se questo fosse dato dalla semplice somma di conoscenze tra loro tendenzialmente disgiunte (il sapere come funzione separabile ed additiva): per laurearsi bisogna superare 25 esami; ogni esame ha il suo specifico programma, dietro cui ci sono un corso e un docente. La visione frammentata del sapere fa la pari con un assetto istituzionale in cui i singoli docenti sono titolari di uno specifico insegnamento e le facoltà sono entità sostanzialmente chiuse e portate ad agire secondo il principio per cui nell'università "tutto si crea e nulla si distrugge".
Ovviamente non tutto è così e così funziona. Vi sono sicuramente nicchie, facoltà con pochi studenti, in cui il sapere viene trasmesso in modo non frammentato e gli esami non sono delle meccaniche verifiche. Le piccole università e le medie funzionano meglio delle grandi e delle grandissime. Ma in generale l'università italiana, oggi più selettiva sia rispetto al passato che al resto d'Europa, colloca i propri pochi laureati sul mercato del lavoro in modo non adeguato al titolo e con più difficoltà di quanto accade all'estero.
Posta di fronte a questa realtà, l'università ha reagito e reagisce in modo diverso. Vi è chi ritiene che i rapporti con il mercato del lavoro, l'eccessivo scarto tra iscritti e laureati, la durata troppo lunga degli studi, non siano un problema dell'università, ma rispettivamente del mondo della produzione e degli studenti. Vi è chi pensa che il problema sia risolvibile aumentando i mezzi a disposizione: più università, più docenti, più facoltà e corsi di laurea. Vi è poi chi ritiene che i problemi non siano risolvibili semplicemente accrescendo i mezzi a disposizione. Al contrario sarebbe essenziale agire sull'organizzazione dell'università, sia in termini di didattica che di assetto istituzionale.
È difficile affermare che oggi l'università sia efficiente ed efficace. Siamo veramente sicuri che ampliando sedi e docenti risolveremmo i problemi di selezione e di qualità con cui oggi ci confrontiamo?
Le valutazioni riguardano la didattica, ma potrebbero agevolmente essere estese anche alla ricerca, con risultati forse ancor meno soddisfacenti. Se osserviamo ciò che accade intorno a noi, nell'economia e nell'ambiente naturale, tutto si evolve e si adatta alle nuove realtà. L'industria rivede i processi produttivi, cambia l'organizzazione del lavoro, i beni e servizi che da essa nascono, antiche professioni scompaiono e ne appaiono di nuove. L'università non può sfuggire a questa regola. Può illudersi di poterlo fare. Ma le conseguenze sarebbero certamente drammatiche. Quale sistema economico e sociale è disposto ad investire in una istituzione che non garantisce efficienza ed efficacia?
L'università deve riorganizzarsi profondamente e rivedere il ruolo dei diversi soggetti istituzionali che in essa operano. Lo deve fare non solo come impegno morale ma anche perché sempre più dovrà confrontarsi con la competizione che da altri verrà, portata da mercati sempre più globali e favorita da confini nazionali sempre meno rilevanti ed invalicabili.
L'Università di Trento parte per molti versi avvantaggiata in questa sfida. È di dimensioni ragionevoli, meno di altre ha subito l'influsso del principio "tutto si crea nulla si distrugge", ha un corpo docente relativamente giovane e spesso impegnato dentro l'università, è inserita in un contesto economico prospero e con ragionevoli opportunità di impiego e produttive.
Non è però una grande sede con grandi tradizioni e un grande nome. In questo senso, se vuole reggere il confronto con i "grandi", deve saperli battere sul tempo, realizzando per prima quelle innovazioni e quelle riforme che agiscano sull'efficienza e l'efficacia del suo operare, nella didattica e nella ricerca.
 


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