no4

  controcorrente  

A proposito della valutazione
delle università/1

di Vittorio Mortara

Citando un autore ottocentesco, oggi molto poco di moda, inizierò questo mio primo, e spero fermamente ultimo, contributo a unitn, affermando che "uno spettro si aggira per l'Europa" ed aggiungerò che questo spettro sta divenendo per me un vero incubo. Lo spettro è costituito dalla "cultura della valutazione" e l'incubo deriva dal fatto che mi sembra che il modo in cui oggi si vuole valutare le università in generale, l'università italiana in particolare e la nostra Università ancora più in particolare sia foriero di una serie di gravi danni alle istituzioni universitarie e più in generale alla società.
Premetto che non ho assolutamente nulla contro la "valutazione" in sé: valutare, nel senso di esprimere giudizi, è qualcosa che tutti fanno, oserei dire che è attività naturale o forse addirittura una delle poche cose che distinguono gli uomini dalle bestie. E ovviamente tutti noi abbiamo sempre valutato le università in quanto abbiamo sempre saputo che esistono "buone" università e università "mediocri" e persino "grandi" università, dove per grande non si intende solo che hanno molti studenti e molti professori, ma anche e soprattutto che sono qualitativamente meglio delle altre. Incomincio ad avere qualche problema quando si tratta di tradurre questa "valutazione" in termini più precisi o addirittura "numerici": se è vero che Harvard è sicuramente una "grande" università e lo Smalltown Community College altrettanto sicuramente non lo è, mi riesce un pò difficile dire di quanto Harvard è meglio di SCC. Il problema nasce a mio avviso anche e soprattutto dal fatto che la valutazione si riferisce alla capacità delle università di raggiungere gli obiettivi che esse si pongono: la formazione della nuova classe dirigente della società in cui vivono e la produzione di nuove conoscenze utili all'umanità e che il conseguimento di questi obiettivi non si presta ad agevoli misurazioni e soprattutto a misurazioni "istantanee". Chi può contare i componenti della classe dirigente? Quali e quante sono le scoperte che hanno "cambiato il mondo" in meglio? E, comunque, solo tra qualche decennio si saprà se lo studente Pinco Pallino, matr. 12785, laureato oggi diventerà un luminare della scienza medica oppure uno di quegli squallidi personaggi che vivono praticando aborti clandestini, un dirigente di imprese "vincenti" o il responsabile di fallimenti in serie, un integerrimo e prestigioso "grand commis" oppure uno dei tanti "mezzemaniche" che passano la loro vita angariando i cittadini con la richiesta di moduli e certificati e così via. E probabilmente altrettanto tempo sarà necessario per capire se la scoperta delle leggi scientifiche che sono alla base del rapporto tra la crescita dei capelli e le condizioni meteorologiche, effettuata dal Prof. Pink O. Smallball del Dept. of Applied Tricology dell'Università di Bigtown risolverà quello che è il problema più assillante dell'uomo moderno (e dell'autore di queste righe), la calvizie, oppure si rivelerà uno dei tanti "vicoli ciechi" che caratterizzano il progresso della scienza.
Eppure, ciò che fa una università "grande" o anche solo "buona" sono proprio la riuscita nella vita di tanti Pinchi Pallini che hanno scaldato i suoi banchi e la capacità dei suoi docenti/ricercatori di contribuire a risolvere i grandi problemi, quali quello della calvizie. Il resto, quello che tanto sembra assillare gli alfieri della "cultura della valutazione" - dal numero di studenti alle attrezzature presenti nei laboratori, dal numero dei libri contenuti in biblioteca al numero dei posti a sedere a disposizione nelle aule, dalla percentuale di "promossi" al rapporto tra personale docente e personale di bidelleria -, mi sembra assolutamente ininfluente. Una grande università non avrà problemi nel procurarsi risorse (o ne avrà di meno di una università semplicemente "buona" o "mediocre"), sarà presa d'assalto da folle di studenti (e questo la metterà in condizione - se lo vorrà e le sarà consentito di farlo - di scegliere quelli che sembrano i più promettenti), diverrà una meta "obbligata" degli studiosi più prestigiosi o più geniali, potrà fare a meno dei bidelli o assumerne centinaia a sua scelta, potrà comprare o farsi regalare nuove attrezzature e così via. Forse tutto questo contribuirà a renderla una università ancora migliore, una università "grandissima", o forse no. Checché se ne dica, resto convinto che noi non lo possiamo sapere e non lo potremo sapere ancora per molti anni.
 

(Prosegue sul prossimo numero)