(continua dal numero
precedente di Unitn)
La
difficoltà di individuare e misurare il conseguimento degli obiettivi non
è caratteristica propria solo delle università; personalmente ho
sempre pensato (e mi pare di averlo anche scritto quando ero giovane ed avevo
ancora voglia di scrivere) che sia propria di tutte le organizzazioni (anche se
di alcune più di altre: pensate al povero Giovanni Paolo II che dirige
una organizzazione il cui compito è quello di fare andare la gente in Paradiso);
e mi sembra anche ovvio che, in mancanza di una misurazione diretta del conseguimento
degli obiettivi, si possa ed anzi si debba ricorrere ad indicatori indiretti,
alla misurazione cioè di qualcosa che si pensa essere in qualche modo collegata
al raggiungimento degli obiettivi o che si pensa serva al (o sia indispensabile
per il) raggiungimento degli obiettivi di difficile o addirittura impossibile
misurazione. Ma, attenzione! Se gli indicatori sono scelti male, non sono cioè
legati strettamente al conseguimento degli obiettivi, la loro dinamica avrà
ben poco a che fare con il miglioramento dell'organizzazione ed anzi in qualche
caso "misurerà" caratteristiche che la logica ed il buon senso
ci dicono essere caratteristiche negative e non positive delle organizzazioni.
Ed in questo caso più l'organizzazione risulterà "buona"
sulla base degli indicatori, meno essa sarà idonea a raggiungere i suoi
obiettivi o scopi che dir si voglia e più insisterà nel "valutare",
peggiore risulterà essere.
E questo sembra a mio avviso essere ciò che sta avvenendo oggi nell'università
italiana ed il fatto che avvenga costituisce quel mio personale incubo di cui
parlavo all'inizio: la stramaledetta "cultura della valutazione" ci
porta a valutare positivamente caratteristiche negative delle università
e, continuando su questa strada, l'università italiana, non certamente
eccelsa, diventerà sempre peggio.
Non ho sottomano l'elenco completo degli indicatori che oggi vengono utilizzati
per valutare le nostre università, ma ho avuto occasione di consultarne
una delle sue prime versioni e qualcosa ricordo. La maggior parte dei numerini
che ci si chiedeva di fornire era tutto sommato abbastanza innocua ed aveva a
che fare con il modo in cui sono spese le scarse risorse messe a disposizione.
Ora, che non si sciupino, "distraggano" o rubino i pochi fondi che l'erario
pubblico mette a disposizione degli atenei è questione molto importante
per Ciampi & Co. e per i cittadini italiani che in ultima analisi pagano il
conto, anche se ovviamente non ha nulla a che fare con ciò che rende "buona"
o "grande" un'università. Se questa è la "valutazione",
valutate pure! Non sarà un toccasana, ma almeno danni non ne fa.
Ma altri numerini, soprattutto tra quelli che pretendono di misurare i "risultati",
sono molto meno innocui ed almeno due di essi sono tali da far rizzare i pochi,
pochissimi capelli che mi restano.
Il primo attiene alla misurazione dei risultati dell'obiettivo formativo: sembra
molto importante che la "mortalità" studentesca cali e che l'università
perfetta, la "grande" università sia quella che riesce a trasformare
tutti gli studenti che vi sono ammessi (ma che dico! - tutti gli studenti a cui
è balenata per la testa l'idea di iscriversi), nel più breve tempo
possibile in altrettanti laureati. Ora, a parte la natura iettatoria della terminologia
adottata (ma che mortalità e mortalità! Dal punto di vista della
salute, la scelta dello studente di abbandonare gli studi è probabilmente
la scelta giusta: meno stress e meno preoccupazioni in una età cruciale
lo faranno certamente vivere più sano e più a lungo!), a prescindere
dal fatto che mi sembra esistere oggi un problema di disoccupazione intellettuale
che bisognerebbe cercare di non aggravare e senza tenere conto del fatto che è
troppo facile barare in materia (basta eliminare dal curriculum tutte le materie
difficili ed essere "comprensivi" negli esami, perché l'indicatore
di cui ci stiamo occupando punti verso il "bello stabile"), a me sembra
che una delle caratteristiche delle "grandi" università sia sempre
stata e sia tuttora proprio quella di far proprio il motto evangelico che recita
"molti sono i chiamati e pochi gli eletti", semmai con una piccola aggiunta
che lo trasformi in "molti sono i chiamati, pochi gli ammessi, pochissimi
gli eletti". In altre parole, ciò che questo indicatore ci chiede
è di non essere selettivi (mi rendo conto del fatto che parlare oggi di
"selezione" non è politically correct, ma la cosa non mi fa né
caldo, né freddo). Non capisco (specie in un paese in cui oltre il 90%
dei candidati ad una maturità la consegue), ma posso anche adeguarmi. Non
venite poi però a lamentarvi con me se il medico si rivelerà un
assassino in camice bianco, se i managers faranno sistematicamente fallire le
imprese, se la burocrazia vi perseguita, se l'avvocato vi fa andare in galera,
se i ponti crollano, etc. etc.
(prosegue e termina sul prossimo numero)
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