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   cultura classica   
Eschilo:
quando emendare
e quando non emendare

di Alex Garvie, University of Glasgow

Ho letto di recente, con grande interesse, il volume degli atti del convegno tenutosi presso questa Università e a Rovereto nel 1999 per celebrare il centenario della nascita di Mario Untersteiner. Alcune delle relazioni presentate in quell’occasione trattano in modo simpatetico il conservatorismo di Untersteiner come critico testuale di Eschilo. Anch’io sono in sintonia con questo atteggiamento, poiché mi sono sempre considerato almeno moderatamente conservativo quando si tratta di critica testuale. Nel suo Repertory of conjectures on Aeschylus (p. 3), Roger Dawe stimò che tra l’Appendice di Wecklein e la pubblicazione del suo libro nel 1965 erano state pubblicate circa 20000 congetture, delle quali solo lo 0,1 % si pensa che abbia "centrato il segno". Dal 1965 si è continuato ad emendare senza sosta e non c’è alcuna buona ragione per supporre che la proporzione di congetture esatte, o almeno generalmente accettate, sia aumentata. Tutti possiamo nominare critici che hanno emendato un testo semplicemente perché si credevano intelligenti abbastanza da fare dei miglioramenti.
Alex F. Garvie è stato Professor of Classics all'Università di Glasgow. Allievo del grande ellenista Denis L. Page, è autore tra l'altro di importanti lavori sul teatro greco, come un saggio sulle Supplici di Eschilo (Cambridge 1969), commenti alle Coefore di Eschilo (Oxford 1986) e all'Aiace di Sofocle (Warminster 1998).
Sopra: lo studioso roveretano
Mario Untersteiner
Sotto: i volumi: La fisiologia
del mito di Mario Untersteiner
pubblicato dai fratelli Bocca,
Milano, nel 1946;
Mithos, Ricordo di Mario Untersteiner,
pubblicato nel supplemento
n. 1/1991 di Materiali di lavoro
In pochissimi casi questi miglioramenti sono davvero dei miglioramenti, e se Eschilo, nelle Isole dei Beati, avesse accesso alle edizioni moderne dei suoi drammi, probabilmente rimpiangerebbe di non averle pensate lui stesso. Sono perfettamente d’accordo con Angelo Casanova e Vittorio Citti che le difficoltà sperimentate dagli studiosi spesso derivino dalla loro incapacità di riconoscere che la sensibilità moderna possa essere aliena a quella del poeta del quinto secolo A.C., che la logica della poesia, e in particolare quella di Eschilo, possa essere diversa da quella di un discorso razionale in prosa, e che la ricchezza dell’immaginario di Eschilo e la densità del suo linguaggio non devono essere livellate attraverso tentativi di semplificazione e normalizzazione. Non ci dovrebbe essere dubbio che Eschilo è uno scrittore difficile, ed è chiaro dalle Rane di Aristofane che era già considerato tale almeno dalla fine del quinto secolo. Non gli rendiamo un buon servizio cercando di eliminare tutte le difficoltà del suo testo.
Risulta perciò allettante fare affidamento sui nostri manoscritti quando c’è una concordanza generale tra loro, sebbene, ovviamente, nel caso in cui discordino, si debbano operare delle scelte. È tuttavia qui che le mie preoccupazioni si destano. Chiunque consideri i numerosi passi nella triade bizantina dei quali il codice Mediceo propone una lettura inferiore ad altri manoscritti, avvertirà che nelle Supplici e nelle Coefore il Mediceo, unico manoscritto, è una guida di cui non ci si può completamente fidare. Ma anche negli altri drammi, dove c’è discordanza tra i manoscritti, non c’è alcuna ragione logica per cui uno di loro debba aver preservato la verità. Tutti possono rappresentare dei tentativi di dare un senso ad una corruzione ben consolidata. E persino la concordanza tra i manoscritti non significa necessariamente che essi preservino la verità. L’intera tradizione potrebbe essere corrotta. Ovviamente il nostro punto di partenza deve essere la tradizione manoscritta, ma io penso che a volte ci dimentichiamo che il nostro dovere primario in qualità di critici testuali non è di cercare il senso per forza, ma di determinare quello che Eschilo in effetti scrisse.
Il convegno Ecdotica ed esigesi eschilea,
Trento, 5-7 ottobre 2000
Spesso sarà impossibile farlo con certezza, ma questo non ci esime dall’obbligo di provarci. Pertanto non vedo il motivo di negare che, se da una parte è vero che Eschilo è uno scrittore difficile, allo stesso tempo il suo testo è altamente corrotto. Fino a un certo punto la seconda cosa è una conseguenza della prima. Spesso sono state le difficoltà a portare alla corruzione.
Si ricorda che di recente è stato pubblicato, sulla Rivista di Storia della Filosofia n.2, 2000, un interessante articolo sullo studioso roveretano a cura di Livio Sichirollo, intitolato Per Mario Untersteiner.
Nel suo interessante Commento al parodos delle Coefori, pubblicato per la prima volta nel volume del Centenario nel 1999, lo stesso Untersteiner rimarca (p. 421) a proposito del difficilissimo epodo (versi 75-83) che secondo lui uno deve (corsivo mio) seguire sostanzialmente il testo manoscritto apportando solo una o due modifiche minori. Nel mio Commento ai versi 78-81, ho sottolineato che "un certo senso può essere ricavato" dal testo di M., ma ho poi argomentato che quel senso era insoddisfacente e che la lingua era eccessivamente artificiosa. Molti di noi, e includo me stesso, ci siamo trovati ancora a scrivere qualcosa come "l’emendamento qui non è necessario". Dovremmo chiederci cosa vogliamo dire con questo. Se stiamo dicendo non solo che il testo trasmesso ha senso, ma anche che esprime al massimo il senso nel suo contesto e in quello del dramma nel suo complesso, che è in accordo con tutto quello che sappiamo dello stile di Eschilo e che è quindi probabilmente ciò che ha scritto Eschilo, allora siamo giustificati a dirlo. Se invece intendiamo che visto che è il testo trasmesso è ipso facto preferibile a una congettura che ha più senso, allora siamo su un terreno molto più instabile. La domanda che dovremmo porci è non "come possiamo conservare la versione del manoscritto, ma quanto dobbiamo provare a farlo?" Come non è nemmeno prudente assumere che la corruzione è sempre chiaramente tradita da un testo che non ha senso alcuno, o per lo meno insufficiente, oppure è semplicemente scritta in un cattivo greco. Molti, forse non tutti, i copisti sapevano scrivere in un greco perfettamente rispettabile ed erano per lo più in grado di esaminare i trimetri giambici. Scrissero ciò che, nella maggior parte dei casi, sembrò loro avere senso, ma questo non significa necessariamente che era il senso che Eschilo intendeva. Per quanto ne sappiamo, ci possono essere versi nei nostri testi che non sono mai stati sospettati, ma che sono ciononostante corrotti.

L'articolo originale in inglese