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  honoris causa  

Kahneman e Cole dottori honoris causa in economia
Il contributo della psicologia e dell’antropologia allo sviluppo delle scienze economiche
di Enrico Zaninotto

Per la prima volta dalla sua fondazione la Facoltà di Economia dell’Università di Trento ha accolto tra i suoi laureati due dottori honoris causa: Daniel Kahneman e John Cole. Tale riconoscimento pubblico, conferito lo scorso 14 ottobre, è avvenuto dopo che per anni questi due grandi ricercatori sono entrati, attraverso i loro studi, nella nostra comunità: esso ha sancito una presenza de facto che già ha innervato le ricerche di molti nostri docenti e studenti, particolarmente di quelli che lavorano in due campi nei quali gli economisti di Trento si distinguono: l’economia delle istituzioni, da un lato, la scienza delle decisioni e del comportamento di scelta, dall’altro. Molti di noi non solo hanno incontrato nella propria ricerca le opere di Kahneman o di Cole; ma ne hanno anche suggerito la lettura a studenti e laureandi e hanno proposto temi di approfondimento direttamente legati alla loro ricerca della quale hanno fatto un punto di riferimento costante. 
Va sottolineato che nessuno dei due laureati è un economista “di professione”. John Cole è un antropologo, anche se si occupa dello studio di comunità più vicine a noi, nello spazio e nel tempo, di quanto in generale si ritiene faccia un antropologo: egli ha svolto le sue ricerche non nella Papuasia, o tra popolazioni lontane dalle condizioni di sviluppo tecnico occidentale, bensì nella vicina Val di Non e ora nei paesi dell’Est europeo. Daniel Kahneman è uno psicologo che ha avviato le sue ricerche sui problemi dell’attenzione e che ha successivamente dedicato gran parte della sua vita a capire i meccanismi cognitivi che sottostanno alla formazione dei giudizi e delle scelte individuali. La ricerca di molti economisti, certamente di quelli che operano in questa Università, ha attinto a piene mani da contenuti e metodi sviluppati altrove. Tali novità di contenuto e di metodo hanno sostenuto - e stanno tuttora producendo - un rinnovamento degli studi economici al quale studiosi di questa Facoltà partecipano attivamente.
Lo studio empirico di diversi aspetti del comportamento umano ha per le scienze economiche un potenziale di rinnovamento molto forte; tuttavia non è dato affatto per scontato tra gli studiosi. Al contrario, guardare con attenzione, introdurre alla base delle proprie ricerche tali risultati viene ancora visto da una parte non piccola della nostra comunità scientifica come eterodosso, come un allontanamento dalle basi metodologiche che hanno costituito l’economia moderna. Per questo alcuni, probabilmente a ragione, hanno accusato l’economia di essere una scienza “autistica” e onnivora, incapace di dialogare con le altre scienze dell’uomo e tendente piuttosto ad assorbirle tutte reinterpretandone le acquisizioni sulla base di un proprio - rigoroso - sistema assiomatico e di un astratto formalismo matematico. Ora, proprio il lavoro di due studiosi come Cole e Kahneman, con alcune acquisizioni fondamentali derivanti da attenti studi empirici sul comportamento umano, illustra quanto fecondi possano essere quegli innesti per i progressi della scienza economica, quanto questa possa ampliare le sue prospettive di comprensione di alcuni aspetti del comportamento dell’uomo qualora guardi con interesse ad altre prospettive di studio, prenda con serietà le acquisizioni di altre discipline e smetta l’attitudine bulimica di inglobare ogni nuova acquisizione entro i propri codici interpretativi. 
La lezione dei due studiosi è anzitutto di carattere metodologico e riguarda il ruolo dell’osservazione empirica nello sviluppo delle scienze dell’uomo. Al di là di ogni dibattito e posizione epistemologica, è difficile rifiutare l’idea che l’osservazione attenta determini sorpresa e stimoli, che lo sviluppo teorico dipenda da interrogativi posti da osservazioni che non si piegano, non prendono la forma prevista dai modelli, producono eccezioni. Il lavoro dello studioso empirico è, in un certo senso, quello di produrre eccezioni; ma questo si scontra con l’esigenza normativa di produrre regolarità, così importante affinché l’economia possa suggerire corsi di azione. L’esigenza di produrre regolarità è stata tuttavia spinta, tra gli economisti, al punto da indurre molti a espungere le eccezioni, relegarle nel regno della variabilità statistica o sterilizzarle con estensioni formali dei propri modelli che non tengono conto del potenziale dirompente di alcune di esse. La “sorpresa” dell’osservatore è stata così eliminata.
Prendiamo il caso di alcuni risultati di John Cole. Osservando l’organizzazione sociale di due comunità della Valle di Non, Cole e Wolf si accorgono che la relazione tra sistema istituzionale e base economica delle due comunità non è univoco: comunità con una base economica per moltissimi aspetti simile vivono a pochi chilometri di distanza entro sistemi di regole completamente diverse. Non solo: le condizioni strutturali delle comunità restano sostanzialmente analoghe in tempi lunghissimi (almeno per la misura del tempo dell’economista) nonostante le differenti regole e gli istituti giuridici che le governano. Questa osservazione dovrebbe da sola bastare a minare il determinismo ingenuo di molta economia istituzionale: quell’idea secondo la quale regole e norme giuridiche sarebbero spiegabili dai meccanismi economici sottostanti, dalla necessità di risolvere in modo efficiente i problemi dello scambio e, viceversa, a diverse regole si accompagnerebbero differenti costi di transazione e quindi differenti assetti economici. La persistenza delle regole e il fatto che esse convivano in comunità caratterizzate da vincoli economici rigidissimi e analoghi, che alla fine producano risultati simili (ad esempio sotto il profilo della distribuzione della proprietà terriera), non possono non interrogare l’economista istituzionale, indicandogli una strada feconda per la ricerca empirica. Il suggerimento di Cole e Wolf di guardare alla pragmatica delle regole, al modo con cui esse sono interpretate e vissute quotidianamente, piegate e rilette attraverso modelli culturali, stili di vita, abitudini, allarga la prospettiva dell’economia delle istituzioni in direzioni non distanti da quelle prospettate da Douglass North, ma certamente lontane da un certo determinismo che pervade una larga parte degli studi di economia delle istituzioni.
I risultati ottenuti da Daniel Kahneman, molti dei quali derivanti dal lungo sodalizio con Amos Tversky, costituiscono una sfida analoga rivolta ai fondamenti stessi dell’economia: la teoria della scelta. Non è tanto la non conformità dei comportamenti agli assiomi della scelta che stanno alla base della costruzione economica a creare un problema. È perfino superfluo rimarcare che una costruzione assiomatica non è toccata in alcun modo dalla non conformità degli assiomi all’osservazione empirica: su questa linea di difesa l’economia ortodossa ha buon gioco a limitare la portata dei risultati degli studi dei modelli cognitivi della scelta. Il problema non è l’eccezione, ma la sua persistenza. Se alcuni comportamenti sono regolari, sopravvivono; se portano a scelte diverse da quelle razionali ma non sono abbandonati, significa che hanno comunque una razionalità, almeno sotto il profilo evolutivo. L’interrogativo posto dagli studi di Kahneman agli economisti diventa in tal modo radicale. Poco interesserebbe sapere, ad esempio, che molte persone effettuano scelte dominate se fossimo certi che questi comportamenti portino a risultati meno buoni delle scelte che si conformano al modello di razionalità economica. Comportamenti inefficienti, “irrazionali” dovrebbero essere sanzionati e, alla lunga, sparire. Ma questo non avviene. Il problema, allora, non è la “irrazionalità”, bensì quale sia la ragione, l’economicità, di alcuni comportamenti di cui si osserva la diffusione e la persistenza. Laddove questo tema è stato preso sul serio, in tutta la sua radicalità, esso ha dato luogo a intuizioni di grandissimo interesse e allo sviluppo di programmi di ricerca stimolanti e innovativi, ma che, al tempo stesso, riscoprono tradizioni di studio e un approccio ai problemi che era già proprio degli economisti classici, ma anche dei maggiori economisti neoclassici – da Marshall a Pareto – ben attenti alla rispondenza dei loro modelli alle parallele acquisizioni di altre scienze allora nascenti: la psicologia, la sociologia, l’antropologia.
L’isolamento e l’autoreferenzialità non è nella tradizione economica che, viceversa, fin dai suoi inizi si è collocata in un contesto di studi del comportamento sociale aperto e attento a molteplici influssi. Il problema è che, come talora accade, con l'innalzarsi della costruzione si è ampliato forse l’orizzonte osservato, ma si incorre nel rischio di perdere di vista la capacità di “guardare alle cose strane”. Herman Melville descrive l’eroico osservatore che, dall’alto dell’albero della baleniera, scruta il mare e, di fronte ai nuovi alberi (i monumenti e le colonne che ornano le nostre piazze), osserva: “Quanto ai moderni abitatori delle teste d’albero, ne troviamo soltanto una sfilza senza vita: meri uomini di pietra, ferro o bronzo, magari capaci di far fronte a una forte burrasca, ma assolutamente inetti al compito di segnalare gridando, caso mai avvistassero qualcosa di insolito” 1. L’opera di studiosi come John Cole e Daniel Kahneman sfida noi economisti al gusto dell’osservazione e della scoperta del comportamento e a prestare attenzione a quelle scienze che, pur con altri strumenti e da altri punti di vista, ci accompagnano nello studio dell’uomo e della società.

[1] H. Melville, Moby Dick, traduzione N. D’Agostino, Garzanti, 1966

 

Cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in economia, Trento, 14 ottobre 2002;
foto in alto a destra: Andrea Leonardi, John W. Cole, Massimo Egidi, Daniel Kahneman, Rino Rumiati, Enrico Zaninotto;
foto in basso: Daniel Kahneman e John W. Cole.

 

Nobel 2002 per l'economia a Daniel Kahneman